Chi di voi passeggiando per Piazza Università a Catania ha notato i quattro candelabri che la illuminano? Probabilmente tutti quelli che leggono. Chi ha invece fatto caso alle statue che stanno alla base e al loro significato? Forse non molti.
I basamenti dei quattro candelabri bronzei di Piazza Università, raffigurano le leggende catanesi di Gammazita, dei fratelli pii Anapia e Anfinomo, del paladino Uzeta e di Colapesce e furono realizzati nel 1957 dal maestro Mimì Maria Lazzaro e dallo scultore Domenico Tudisco.
Cominciamo dalla storia legata a Gammazita, o ad una delle più diffuse. Giovane e bella, già promessa sposa, Gammazita è vissuta intorno al 1280. Di lei si era innamorato un soldato francese, che non esitò a perseguitarla per ottenere la sua attenzione, ma soprattutto le sue grazie. Lui si chiamava Droetto. Un giorno, la giovane, per sfuggire alle continue pressioni dell’uomo, decise di buttarsi in un pozzo piuttosto che disonorare la propria promessa d’amore e se stessa. Da lì una caccia all’uomo per scovare il colpevole di quel gesto disperato. Per riconoscere i francesi dagli autoctoni venne chiesto ai passanti di pronunciare la parola “ciciri”. La storia richiama fortemente il conflitto tra siciliani e francesi che portò ai Vespri Siciliani. Versioni successive arricchiscono il racconto, romanzandolo e aggiungendo altri personaggi di contorno, come per esempio donna Macalda Scaletta, bellissima e orgogliosa vedova del signore di Ficara, che attirava la corte di tutti i cavalieri francesi e siciliani. Innamoratissima del suo giovane paggio Giordano, sfuggiva a tutte le proposte amorose. Un giorno però Giordano vide la giovane Gammazita intenta a ricamare dinanzi alla soglia della sua casa e se ne innamorò perdutamente. L’amore dei due giovani destò le ire e la folle gelosia della perfida Macalda, che si accordò con il francese de Saint Victor, ovvero Droetto, per tendere loro un tranello. Gammazita si gettò nel pozzo sempre per difendere la sua purezza. Giordano, dopo aver appreso la notizia, in preda alla disperazione assalì il suo nemico, uccidendolo a pugnalate. Il pozzo è attualmente visitabile nelle zone del Castello Ursino, nel cortile di Gammazita in via san Calogero.
La seconda leggenda è quella dei fratelli pii Anapia e Anfinomo, contadini che furono sorpresi da un eruzione dell’Etna mentre lavoravano i campi. Decisero di fuggire ma pur di salvare i genitori se li misero sulle spalle. La lava una volta arrivata nei loro pressi, si divise miracolosamente, lasciandoli incolumi. Questo racconto miracoloso è raffigurato spesso nei paesi dell’Etna, con templi, statue e monete, ed è probabilmente motivato dal fatto che i contadini della zona, nei secoli, hanno avuto a che fare con le numerose eruzioni del nostro vulcano. Si racconta che la leggenda abbia ispirato il sommo Virgilio, che avrebbe preso ad esempio il coraggio e la forza di questi due fratelli, nel descrivere Enea intento a portare in salvo, proprio sulle sue spalle, il padre Anchise.
La terza leggenda raffigurata è quella del paladino Uzeta, giovane di umili origini, da non confondere con il vicerè spagnolo, che conquistò la stima del re Federico II di Svevia, grazie al suo coraggio e valore nella sconfitta dei due giganti saraceni Ursini che abitavano all’epoca il castello. La storia, che è opera del catanese Giuseppe Malfa, la possiamo sentire raccontata e rappresentata nei racconti dell’Opera dei Pupi.
L’ultima leggenda, la più famosa, portata in Auge da Italo Calvino, narra del giovane Colapesce, abile nuotatore e subacqueo, messo alla prova dall’imperatore Federico II di Svevia. L’imperatore portò a largo il giovane e buttò in mare una coppa ordinando a Cola di andarla a riprendere. In giovane si tuffò e al suo ritorno riconsegnò la coppa all’imperatore e gli raccontò delle meraviglie che vide di quel regno marino e che solo pochi conoscevano. L’imperatore stupito di questo lo portò più lontano e gettò la sua corona ordinando come sempre al giovane di andarla a recuperare. Al ritorno Colapesce, con la corona in mano, raccontò all’imperatore di ciò che aveva visto e molto frastornato spiegò che la Sicilia era retta da tre colonne, una a Capo Passero, una a Capo Lilibeo ed una a Capo Peloro, proprio sotto Messina, quest’ultima molto incrinata a causa del fuoco dell’Etna. Il re, allarmato, gli chiese di andare a controllare meglio, lanciando il suo anello, ma data la profondità e la stanchezza, Colapesce domandò un pugno di lenticchie da portare nei fondali: se le lenticchie fossero tornate a galla ciò sarebbe stato segno della sua morte. Colapesce si immerse e dopo qualche tempo riemersero le lenticchie. Secondo la leggenda però Colapesce non è morto ma, avendo visto che la colonna incrinata stava cedendo, si è sostituito ad essa. La storia vuole quindi che quel giovane coraggioso sia ancora lì sotto a sostenere Messina e la Sicilia intera. Infatti, quando vi è un terremoto, si dice che Colapesce sia stanco di sostenere la colonna, in quei momenti cambierebbe la spalla di sostegno alla nostra isola, generando il tremore della terra.